Il Partito Democratico approdo dei Cattolici
Tratto da Europa del 19 gennaio
Non è la stagione degli egoismi. È questo il messaggio che ho letto nelle parole del presidente del senato Franco Marini, intervistato nei giorni scorsi da Repubblica. E per me non sono parole nuove. Dalla costituente del Ppi alla scissione dello scudocrociato e alla “resistenza” a Buttiglione, dall’alleanza di centrosinistra allargata a Rifondazione per le regionali del ’95 alla nascita del primo governo Prodi, dalla gestazione della Margherita alla lista dell’Ulivo per le europee, mai è mancata nella linea politica dei cattolici democratici la capacità di fare un passo indietro per farne insieme ad altri diversi in avanti. Mai abbiamo avvertito paura o l’incertezza. E adesso chi proviene dall’esperienza dc e popolare sa di poter guardare all’orizzonte del Pd con lo stesso coraggio e determinazione con cui sono state vissute altre fasi della storia politica in cui una tradizione, una cultura profonda e radicata come quella cattolicodemocratica si è saputa mettere in discussione. La prospettiva riformista, allora, si rappresenta in una dissolvenza incrociata, come la naturale evoluzione di un percorso dei credenti impegnati in politica. Porsi in posizione tremebonda e conservatrice rispetto a questo orizzonte non solo è una miope scelta strategica, ma non rende il giusto onore alla forza e al ruolo che la nostra tradizione ha avuto. Semmai ora, liberi dalla democrazia bloccata, i cattolici democratici possono recuperare ciò che avevano lasciato per strada nella mediazione del governo possibile: scarsa attenzione alle nuove generazioni, disinvoltura nella gestione della finanza pubblica, vaga seduzione per assistenzialismo e il centralismo, lettura parziale del concetto di “libertà”. Tutti cedimenti figli di un altro tempo. Necessari, forse, per la costruzione di uno stato nuovo all’indomani della guerra. Zavorra di una responsabilità che travalicava gioco forza l’impronta politica radicata nel dna dei democratici cristiani. Oggi dobbiamo essere pronti a giocare senza riserve la nostra partita di cambiamento, declinando le aspirazioni che caratterizzano la nostra presenza nella società: applicazione concreta del principio di sussidiarietà, valorizzazione delle autonomie locali, libertà come occasione positiva e non come mera privazione di vincoli, equilibrio tra la giustizia sociale e iniziativa privata che tende al profitto. Il Partito democratico è la sede privilegiata dove questo contributo ideale può favorire maggiore agibilità politica perché, laicamente, può incrociare sensibilità e intendimenti, senza venir meno al proprio disegno complessivo e senza cedere a tentazioni di ritrosie integralistiche. Le regole, le procedure, le mediazioni sono argomenti importanti: un percorso serio non deve lasciare strascichi o “carichi pendenti.” Ma la meta non può essere messa in discussione, anzi va valorizzata, perché lo spazio che dobbiamo riempire, quello «dell’innovazione attenta e senza retorica» come lo chiamerebbe Moro, non può essere vuoto per sempre. E se poi non saremo noi ad occuparlo rischia di essere prateria per estemporanei saltimbanchi e demagoghi, che lo potrebbero utilizzare per il proprio progetto di potere e non per perseguire quell’allargamento della base democratica sostanziale, che diventa – nella repubblica del terzo millennio – elemento irrinunciabile della tenuta delle istituzioni e forse anche della stessa azione riformista del governo. Allora, mobilitazione di tutti gli iscritti per gettare le fondamenta del Pd. Ecco il modo migliore per celebrare il nostro congresso, non rito burocratico per contare tessere, ma occasione per lanciare le idee del futuro con un protagonismo nuovo che nasce da tutte le realtà territoriali.
- Nella foto: l'on. Nicodemo Oliverio, responsabile del Dipartimento Organizzazione (tratta dal sito de La Margherita)
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