I "Dico" non sono i "Pacs": e vanno discussi
Commento del Senatore Egidio Banti al Disegno di Legge sui Diritti e Doveri dei Conviventi
Per discutere seriamente di un argomento lo si deve conoscere. E vi si deve riflettere sopra. Credo che ciò valga in modo particolare per argomenti eticamente, ed anche costituzionalmente rilevanti, quali quelli che riguardano i fondamenti dell’organizzazione sociale: famiglia, convivenze e quant’altro. Lo dico a proposito della ben nota vicenda del disegno di legge presentato dal governo Prodi sui “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi (DICO)”. Siamo praticamente solo all’inizio di un percorso non breve, peraltro già preannunciato in campagna elettorale sulla base del programma di governo del centrosinistra (nel punto sulle cosiddette “unioni civili”). Ma alcune cose appaiono già chiare, e sono il primo frutto della “sintesi alta” auspicata dal Capo dello Stato e, a mio modo di vedere, già realizzata all’interno del governo e della sua maggioranza tra esponenti di cultura cattolica ed esponenti di cultura cosiddetta “laica”.
Un primo punto appare di chiarezza assoluta, e non vale a rimuoverlo la becera propaganda del centrodestra: i “DICO” proposti dal governo Prodi sono una cosa molto lontana (sia concettualmente, sia giuridicamente) dai “PACS” francesi o dalla normativa spagnola. L’articolo 1 del disegno di legge non lascia spazio ad equivoci: i “PACS” francesi sono, appunto, dei “patti”, che i contraenti stipulano di fronte allo Stato ed a colui che lo Stato delega per riceverli. Sono cioè “costitutivi” di una nuova forma di aggregazione familiare e sociale. Se il governo o il Parlamento volessero introdurli in Italia, alla luce dell’attuale articolo 29 della Costituzione che riconosce solo la famiglia “fondata sul matrimonio”, sarebbe verosimilmente necessaria una procedura di modifica della Costituzione stessa. Invece, per i “DICO”, non è così: la Costituzione non viene modificata, la famiglia resta fondata “solo” sul matrimonio. Infatti, nessuna nuova unione viene “istituita” con la procedura ora prevista. L’articolo 1 si limita a riconoscere diritti e doveri particolari a coloro che la convivenza l’hanno già realizzata, sulla base delle norme di registrazione anagrafica previste (addirittura !) da un decreto del 1989, decreto che non viene affatto modificato.
Sul punto, nel settembre 2005, era intervenuto il cardinale Camillo Ruini, affermando: “Per quelle unioni che abbiano desiderio o bisogno di dare una protezione giuridica ai rapporti reciproci esiste anzitutto la strada del diritto comune, assai ampia e adattabile alle diverse situazioni. Qualora emergessero alcune ulteriori esigenze, specifiche e realmente fondate, eventuali norme a loro tutela non dovrebbero comunque dar luogo a un modello legislativamente precostituito né tendere a configurare qualcosa di simile al matrimonio, ma rimanere invece nell’ambito dei diritti e doveri delle persone”. Non abbiamo certo qui titolo per interpretare le parole del cardinale, ma a noi sembra che l’articolo 1 del disegno di legge (pur non essendo, ovviamente, obbligato a farlo) recepisca pienamente le frasi riportate. Infatti, non abbiamo nessun nuovo “modello legislativamente precostituito”, e quindi – checché ne dica Berlusconi (proprio lui, perbacco !) – nulla di “simile al matrimonio”. Si resta precisamente “nell’ambito dei diritti e dei doveri delle persone”.
Dopodiché la legge andrà discussa con pacatezza, esaminata nei dettagli, certo modificata nelle aule del Parlamento. Ma il punto di partenza – nessuno lo può ignorare – è proprio la “sintesi alta” della quale si è reciprocamente parlato, nelle settimane scorse, tra Stato e Chiesa. E dunque rispettosa dei patti concordatari ma, soprattutto, riteniamo, della coscienza comune. Nell’Ulivo, i sessanta parlamentari della Margherita (tra cui anch’io) firmatari nei giorni scorsi di un testo che richiamava tale esigenza, penso abbiano contribuito positivamente a rimuovere alcuni ostacoli iniziali. Ora dobbiamo rimuoverne altri.
Un primo punto appare di chiarezza assoluta, e non vale a rimuoverlo la becera propaganda del centrodestra: i “DICO” proposti dal governo Prodi sono una cosa molto lontana (sia concettualmente, sia giuridicamente) dai “PACS” francesi o dalla normativa spagnola. L’articolo 1 del disegno di legge non lascia spazio ad equivoci: i “PACS” francesi sono, appunto, dei “patti”, che i contraenti stipulano di fronte allo Stato ed a colui che lo Stato delega per riceverli. Sono cioè “costitutivi” di una nuova forma di aggregazione familiare e sociale. Se il governo o il Parlamento volessero introdurli in Italia, alla luce dell’attuale articolo 29 della Costituzione che riconosce solo la famiglia “fondata sul matrimonio”, sarebbe verosimilmente necessaria una procedura di modifica della Costituzione stessa. Invece, per i “DICO”, non è così: la Costituzione non viene modificata, la famiglia resta fondata “solo” sul matrimonio. Infatti, nessuna nuova unione viene “istituita” con la procedura ora prevista. L’articolo 1 si limita a riconoscere diritti e doveri particolari a coloro che la convivenza l’hanno già realizzata, sulla base delle norme di registrazione anagrafica previste (addirittura !) da un decreto del 1989, decreto che non viene affatto modificato.
Sul punto, nel settembre 2005, era intervenuto il cardinale Camillo Ruini, affermando: “Per quelle unioni che abbiano desiderio o bisogno di dare una protezione giuridica ai rapporti reciproci esiste anzitutto la strada del diritto comune, assai ampia e adattabile alle diverse situazioni. Qualora emergessero alcune ulteriori esigenze, specifiche e realmente fondate, eventuali norme a loro tutela non dovrebbero comunque dar luogo a un modello legislativamente precostituito né tendere a configurare qualcosa di simile al matrimonio, ma rimanere invece nell’ambito dei diritti e doveri delle persone”. Non abbiamo certo qui titolo per interpretare le parole del cardinale, ma a noi sembra che l’articolo 1 del disegno di legge (pur non essendo, ovviamente, obbligato a farlo) recepisca pienamente le frasi riportate. Infatti, non abbiamo nessun nuovo “modello legislativamente precostituito”, e quindi – checché ne dica Berlusconi (proprio lui, perbacco !) – nulla di “simile al matrimonio”. Si resta precisamente “nell’ambito dei diritti e dei doveri delle persone”.
Dopodiché la legge andrà discussa con pacatezza, esaminata nei dettagli, certo modificata nelle aule del Parlamento. Ma il punto di partenza – nessuno lo può ignorare – è proprio la “sintesi alta” della quale si è reciprocamente parlato, nelle settimane scorse, tra Stato e Chiesa. E dunque rispettosa dei patti concordatari ma, soprattutto, riteniamo, della coscienza comune. Nell’Ulivo, i sessanta parlamentari della Margherita (tra cui anch’io) firmatari nei giorni scorsi di un testo che richiamava tale esigenza, penso abbiano contribuito positivamente a rimuovere alcuni ostacoli iniziali. Ora dobbiamo rimuoverne altri.
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